La teoria lombrosiana
Criminologo, professore di Antropologia Criminale all’Università La Sapienza di Roma nei primi anni 60 (ho frequentato il corso e sostenuto l’esame nell’anno accademico 1964/65), Benigno Di Tullio, scienziato della materia, ha scontato nella vita accademica e professionale il “torto” di essere stato allievo di Cesare Lombroso, precursore e pioniere della criminologia clinica, autore di “L’uomo delinquente”. Lombroso era stato il teorico del determinismo biologico, condannato per questo alla damnatio memoriae. Per lunghi anni. Soltanto ora si comincia a rivalutarne l’opera e le intuizioni. Gli anni 60, in particolare, sono stati quelli della contestazione giovanile (nulla a che vedere con le bande armate e il terrorismo della successiva stagione) e di don Milani, teorico di una opposta forma di determinismo: dell’uguaglianza biologica degli studenti (non di un pari trattamento degli studenti nella scuola dell’obbligo, a fini del giudizio di merito), che si è riflessa sulla promozione a prescindere, sull’esame di gruppo, sul 18 politico e, negli anni a seguire, inevitabilmente sul declino della scuola. Quindi Di Tullio, per “demeriti” intellettuali attribuiti dall’ideologia allora imperante, non riscuoteva i riconoscimenti che avrebbe meritato (al pari, ma per altre ragioni, del suo collega universitario Emilio Betti), ma se ne fece una ragione e, con i suoi seminari, dimostrava sul campo agli studenti – e a quanti, anche estranei, volessero partecipare – la fondatezza della teoria insegnata.
La sperimentazione
I seminari si tenevano a Rebibbia, il carcere mandamentale di Roma, che, allora, era ai margini della città e, ora, si trova in quartieri ad alta intensità abitativa. Il seminario si svolgeva all’interno del carcere in una stanza contigua all’ingresso e consisteva di lezione e conversazione, prevalentemente del professore, con una persona detenuta, che liberamente si prestava a raccontare la sua vita, le sue scelte e le sue esperienze. Di solito erano esponenti della piccola criminalità, anche se, ogni tanto, al professore riusciva il colpo, con grande soddisfazione degli studenti, di chiamare un noto criminale. La conversazione era quasi salottiera. Il criminale – si capiva in seguito – non si rendeva conto di affidare all’illustre interlocutore gli elementi necessari per la diagnosi della sua mentalità e per la previsione del suo comportamento, una volta fuori dal carcere: recidivo, nella quasi totalità dei casi. A dimostrazione di una tendenza personale, costitutiva, indipendente dall’educazione e dall’ambiente sociale di appartenenza (dell’epoca), alla criminalità.
Opportunismo criminale
I delitti senza movente (apparente) sono ora all’ordine del giorno. Ad opera di giovani e meno giovani, sempre in danno dei deboli, donne, anziani, giovani isolati, quindi a seguito di scelte opportunistiche. Il criminale senza movente non rischia in proprio. Si munisce di arma, adocchia la vittima e colpisce. Esercita così il suo potere ancestrale del forte sul debole, incapace di difesa. Sono delitti contro la persona e contro la civiltà, che arretra dinanzi alla violenza, sul momento e, spesso, in sede di sanzione, ricorrendo, per rinnovata ideologia, alla “giustificazione” del delitto. Il cui movente semplicemente risiede nella costituzione (non solo fisica, anche mentale) dell’artefice, incivile, che dà sfogo agli istinti, pensando, a torto o ragione, di cavarsela. Di Tullio e Lombroso lo hanno insegnato e generazioni di giuristi e criminologi lo hanno ignorato.