Abstract
Pochi sanno che Carl von Clausewitz, autore del celebre trattato sulla guerra, ritenesse applicabili i principi del combattimento a tutti i tipi di conflitto e, in particolare, alle contese giudiziarie. Noi, a seguito di un’attenta e impegnativa analisi comparata, abbiamo sperimentato e verificato l’effettiva praticabilità, nella giurisdizione, dei principi codificati dal grande stratega nel trattato. Nel corso del tempo, per mettere a sistema la nostra esperienza, abbiamo elaborato protocolli di partecipazione professionale alla preparazione e alla gestione dei conflitti. In previsione di un documentato studio casistico sulla proficuità del fattore strategico nella pianificazione dell’attività contenziosa, offriamo alla ricerca e al dibattito gli spunti di riflessione esposti nell’introduzione.
Premessa
Le analogie tra i conflitti di ogni natura sono assai più ricorrenti di quanto si possa, a tutta prima, ritenere, mentre divergono sostanzialmente le modalità di preparazione e di partecipazione al confronto, adottate di volta in volta, spesso senza una strategia, dai protagonisti titolari delle posizioni contrapposte nei campi di rispettivo interesse.
In particolare, nel campo dell’attività economica, difetta nei protagonisti delle imprese di dimensione piccola e media, la consapevolezza che le questioni circostanziali, contingenti o strutturali, oggettivamente apprezzabili nell’ambito della competizione nel mercato di riferimento e, in prospettiva, del conflitto giudiziario, possano esuberare le condizioni del mero confronto tecnico-giuridico tra gli interessi rappresentati, e richiedano, per ciò, una dedizione specifica e una pianificazione del tutto analoghe alla preparazione del conflitto bellico.
Le imprese di medio-grandi e grandi dimensioni, invece, hanno gradualmente acquisito la consapevolezza che non possono fare da sole, quando la logica della competizione o l’esigenza di alleanze temporanee richiedono competenze aggregate estranee all’organizzazione interna.
Insieme all’evidenza di una strategia adeguata alle difficoltà e agli imprevisti del confronto e del conflitto, le imprese più strutturate avvertono, così, l’esigenza dell’integrazione delle risorse e si rivolgono all’esterno, attingendo al mercato delle professionalità specialistiche.
Non a caso, negli anni più recenti, la parola “strategia processuale” si è affermata nella dottrina e occhieggia, qua e là, nella giurisprudenza di legittimità, molto attenta all’evoluzione del diritto vivente nel confronto giudiziario e del principio di nomofilachia, anche nel rapporto tra gli Ordinamenti, che concorrono tra loro nell’offerta della legge e nell’attribuzione del conflitto all’uno o all’altro giudice.
La materia concernente la strategia, tuttavia, non è semplice, non s’improvvisa, richiede concentrazione e approntamento di risorse, in previsione del confronto negoziale e giudiziale; attinge a competenze complesse, non tutte di pronta disponibilità sul mercato della consulenza, e costituisce, per lo più, in Italia, oggetto di offerta di poche, primarie organizzazioni professionali.
Noi, competendo talvolta con queste organizzazioni e apprezzandone punti di forza e di debolezza, abbiamo messo a punto, nel tempo, a fini strategici, sulla base di analisi specifiche e dell’esperienza, modelli operativi di consulenza e di assistenza, alle persone e alle imprese, di pronta applicazione pratica.
Abbiamo, per questo, mutuato non pochi principi dal prezioso riferimento culturale dei due manuali sulla guerra più noti, scritti, in tempi e in luoghi molto diversi: l’uno da Sun Tzu in Cina, vari secoli prima di Cristo; l’altro da Carl von Clausewitz in Prussia, intorno al 1830, pubblicato postumo, a cura della coniuge, nella versione a noi nota.
Il manuale del Sun Tzu, del tutto ignorato in occidente fino alla fine dello scorso millennio, è stato scoperto dalle scuole di management e costituisce, ora, la guida per eccellenza dei manager.
Il manuale di Clausewitz non ha avuto fortuna immediata: è stato scoperto e adottato dalle scuole di guerra europee nella seconda metà dell’800, e, da allora, è insegnato nelle accademie militari.
Noi riteniamo che i due insegnamenti, in parte, si sovrappongano e, in parte, si integrino, e, con questa riflessione sull’applicabilità dei principi della guerra ai conflitti, in particolare ai conflitti giudiziari, offriamo uno studio introduttivo e un’opinione sul tema, da condividere o dibattere, avvertendo che la nostra analisi si limita, al momento, al processo civile.
Sull’inevitabilità del conflitto armato e del processo
La frase forse più nota di Clausewitz riguarda la natura della guerra, che, nella sua prospettazione, è la prosecuzione della politica con altri mezzi.
Il conflitto bellico, in sostanza, non è considerato dall’illustre autore lo strumento per eccellenza, né, tanto meno, lo scopo della politica, bensì uno degli strumenti, per sua natura rischioso e dispendioso, a cui la politica ricorre, quando non è possibile fare altrimenti.
Già qui, è evidente l’analogia tra la guerra e lo scontro giudiziario, inevitabile, se e quando la negoziazione fallisce e l’interlocutore assume l’iniziativa litigiosa, diventando, in quel momento, l’avversario da combattere e da vincere.
Abbiamo, per questo, coniato il motto, perfettamente sovrapponibile, che il processo altro non è che la prosecuzione della negoziazione con altri mezzi, quando i tentativi di composizione degli interessi si sono esauriti e non si ravvisano alternative possibili, o meno dispendiose, al conflitto.
Il tema dell’impiego proficuo delle risorse disponibili, non solo materiali, non solo attuali, in relazione al perseguimento utile dello scopo, è ricorrente nei conflitti, sia bellici, che giudiziari, almeno in quelli contrassegnati dall’elemento della razionalità.
E’ noto, infatti, che alcuni conflitti giudiziari, sia personali, sia economici, sono caratterizzati dagli istinti e dall’irrazionalità, che contraddicono en principe l’esigenza di freddezza e di calcolo del progetto strategico, sia pure non immune da tensione morale e, in certi casi, perfino spirituale, come parte del pensiero e dell’azione dell’uomo, che Emilio Betti ha meravigliosamente insegnato nella Teoria Generale dell’Interpretazione con riferimento a tutte le attività umane.
L’Ordinamento Giuridico prevede l’inevitabilità del conflitto giudiziario, se e quando le alternative sono state inutilmente percorse, e richiede, in giudizio, la prova che le opzioni alternative alla lite siano state effettivamente sperimentate, in prevenzione del giudizio formalizzato dinanzi all’autorità giudiziaria.
Le iniziative ADR – Alternative Dispute Resolution (risoluzioni alternative delle controversie) hanno assunto dignità normativa in questo millennio, e sono richieste – come è noto agli operatori – in prevenzione di gran parte dei giudizi, con pochi tassativi esoneri di legge, pena l’improcedibilità del processo.
Quando le alternative si siano effettivamente, quanto inutilmente, esaurite, è necessario concentrare l’attenzione e le energie sulla lite, o, nelle parole di Clausewitz, sul combattimento.
Sulla natura della guerra e del conflitto giudiziario
Il combattimento individuale è un duello. La guerra è un duello allargato, rischioso, impegnativo, coinvolgente.
Lo scopo del combattimento e della guerra è la sopraffazione dell’avversario, mediante l’esercizio di un atto di forza, praticato con capacità e lungimiranza.
Lo scopo del confronto giudiziario è la soccombenza dell’avversario, a seguito di accoglimento della pretesa, prospettata nella domanda, rivolta, per quanto di rispettivo interesse, alla controparte e all’autorità giudiziaria.
Il confronto giudiziario si svolge nel rispetto di regole codificate, approntate e richieste dalla legge ne cives ad arma ruant, e, tuttavia, si conclude, in difetto di ripresa della negoziazione e della composizione condivisa del conflitto, con un atto di forza, esercitato dalla parte vittoriosa sulla parte soccombente, mediante l’esecuzione della sentenza.
Il combattimento inizia con un attacco, che dispiega le forze, in conformità al piano strategico. La lite inizia con un atto introduttivo, che prospetta argomenti e prove, in conformità ad un progetto offensivo/difensivo, del tutto analogo al piano strategico di un comando militare o di una unità di crisi, di fronte ad una emergenza.
L’attacco, nella concezione di Clausewitz, è complicato, ben più rischioso della resistenza difensiva, rivela gli obiettivi e le risorse impegnate nell’iniziativa, espone, almeno inizialmente, alla controffensiva dell’avversario.
Per questo, l’attacco richiede una forza preponderante o il ricorso a stratagemmi, perfino all’astuzia, che, applicata sul campo, può costituire, in difetto di altre risorse, una componente essenziale del piano strategico.
La difesa, pertanto, è vantaggiosa, se riflette anch’essa una preparazione e una scelta strategica, non potendosi limitare, in prospettiva, alla resistenza tout court, ma dovendosi trasformare, a tempo debito, prima che sia troppo tardi, in attività offensiva, a seguito di assunzione dell’iniziativa.
Si vede bene che la tempestività è un altro elemento essenziale del conflitto, che comporta scelte e sacrifici inevitabili, suscettibili, anch’essi, di pianificazione.
In mancanza di scelte idonee a uscire dall’impasse generato dall’attacco e ad assumere l’iniziativa, si rischia, a parità di forze, il moto perpetuo, che logora entrambe le parti, togliendo scopo al confronto.
Questo è vero per la guerra, così come per il confronto giudiziario, soprattutto quando non siano stati pianificati, con razionalità, gli obiettivi del conflitto.
Le liti giudiziarie tra coniugi e coeredi sono costellate di irrazionalità, vengono spesso intraprese per odio personale dissimulato in questione di principio, e proseguono per anni e per decenni, distruggendo relazioni personali e patrimoni.
Noi siamo testimoni diretti di giudizi successori durati oltre trenta anni, senza risultati apprezzabili sotto il profilo economico per nessuna delle parti impegnate nel conflitto.
Ciò che è vero per le questioni di famiglia e di successione, non è del tutto estraneo ai conflitti tra protagonisti della scena economica, piccoli e grandi.
Sono frequenti le liti tra soci delle società titolari di piccole e medie imprese per istinto di sopraffazione, non di rado qualificato nel processo come abuso del diritto.
La situazione di stallo ricorrente nella società a responsabilità limitata è stata risolta brillantemente dalla sezione specializzata del Tribunale di Roma con una decisione innovativa, che si è richiamata al “gioco” della roulette russa ed è, in seguito, assurta al rango di clausola adottata negli statuti.
In sostanza, il conflitto giudiziario richiede preparazione, e, per questo, consapevolezza delle proprie forze, chiarezza degli obiettivi, umiltà personale e il concorso, nelle scelte decisive, di competenze ed esperienze specifiche della materia litigiosa, mediante la partecipazione di avvocati specializzati.
Precisiamo, tuttavia, che il consiglio legale deve essere, a sua volta, informato e preparato, dovendosi compenetrare nella fattispecie concreta.
E’ questa materia esclusiva di organizzazioni specializzate ed esperte, capaci di interloquire, in totale equilibrio, con i protagonisti delle attività di impresa.
Tuttavia, mentre gli imprenditori, a vantaggio dell’attività d’impresa, si devono servire di avvocati esperti, questi non possono appropriarsi della vicenda contenziosa, imponendo la propria cultura, la propria esperienza e le proprie scelte: devono riconoscere il proprio ruolo esclusivamente tecnico, assegnato dalle esigenze del conflitto.
Ricordiamo che, secondo Georges Clemenceau, “la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari”. Il motto vale anche per gli avvocati, che talvolta – diciamolo – vantano credenziali aspecifiche.
Sulla preparazione della guerra e del conflitto giudiziario
La preparazione del conflitto richiede l’analisi delle risorse proprie e dell’avversario, la partecipazione di competenze integrate, la definizione degli obiettivi e la pianificazione dell’intervento, che sia offensivo o difensivo.
In questa riflessione, ci occupiamo, in particolare, delle modalità di partecipazione di avvocati esperti alla preparazione e, poi, alla gestione del conflitto, avvertendo che non difettano gli studi sulla formazione degli avvocati, in genere.
Difettano, per quanto sia a nostra conoscenza, studi, in materia d’impresa, sulla partecipazione, sull’impostazione e sulla gestione del conflitto da parte degli avvocati, in conformità a obiettivi condivisi con i protagonisti economici.
E’ opportuno distinguere, a questo punto, il combattimento individuale dalla guerra, il duello dal duello allargato, nelle parole di Clausewitz, distinguendo, analogamente, il giudizio in cui si controverte su un unico diritto soggettivo, destinato, in prospettiva, a concludersi con una decisione limitata all’unico punto di domanda, dal giudizio complesso, in cui la materia controversa è rappresentata dalla contesa di un settore di mercato, da una joint venture mancata, dalla disputa di un marchio celebre, dalla illiceità di operazioni straordinarie d’impresa, dagli abusi del diritto deliberati dal socio di maggioranza relativa: tutte questioni destinate, per l’intrinseca complessità, a riverberarsi sulla prosecuzione dell’attività di una o più imprese, potendone determinare, talvolta, la sopravvivenza o la liquidazione, volontaria o concorsuale.
Non sono casi inconsueti, anzi, sono la maggioranza dei casi che si presentano nella pratica professionale. Il settore economico controverso può essere locale, nazionale o estero; il marchio può contribuire sostanzialmente al risultato d’impresa o può, d’altra parte, impoverirlo; la joint venture mancata può avere assorbito risorse, rivelato segreti di produzione, condiviso medio tempore il mercato d’interesse; l’operazione straordinaria può avere abusato del mercato di riferimento, pubblico o privato, con effetti devastanti a carico degli azionisti di minoranza, spesso privi di rappresentanza in consiglio di amministrazione.
Le competenze dell’avvocato capace di interloquire con i dirigenti d’azienda, di leggere i bilanci, di comprendere il progetto di sviluppo dell’impresa e di trasferire le ambizioni (non velleitarie) e gli obiettivi concreti dell’imprenditore nell’attività processuale, non s’improvvisano.
Alla formazione classica, fatta di buoni studi giuridici ed economici, di letture estese al campo delle scienze umane, della logica argomentativa e della psicologia forense, si deve unire la scuola dei casi, non disgiunta da un apprezzabile talento naturale per l’impegno specifico richiesto dal progetto strategico processuale.
Esistono ottimi saggi sull’incontro e sul confronto dell’avvocato con il cliente, sull’opportunità di una scaletta preparatoria dei dati e degli argomenti, sulla selezione dei dati utili all’approntamento dell’attività difensiva.
La letteratura sull’incontro dell’avvocato con l’impresa è, invece, assai scarsa, a fronte dei saggi consegnati agli studi specifici da banchieri, economisti, capitani d’industria e, perfino, da psicologi.
L’avvocato – errando – tendenzialmente afferma la propria primazia culturale e professionale rispetto alla comprensione delle esigenze dell’impresa; è perfino restio a lasciare il proprio ufficio per visitare l’azienda e gli altri luoghi, in cui si svolge l’attività produttiva.
Da lì, invece, secondo noi, deve partire il lavoro congiunto, dai luoghi, dai bilanci e dai progetti, sia dell’impresa che chiede il consiglio, sia, per quanto consentito dalle circostanze, dell’impresa con cui, dapprima, si interloquisce, si negozia (perché l’avvocato esperto in strategia processuale dovrebbe partecipare quanto meno alla fase conclusiva della negoziazione) e, poi, si combatte.
Allora, e soltanto allora, il consiglio e, in seguito, l’assistenza dell’avvocato, sulla base delle informazioni acquisite, potranno essere consapevoli e conformi alle attese dell’imprenditore.
Un esercito muove in guerra e all’avvocato non può essere riservato il ruolo dell’intendenza. Non è nelle sue corde, non è nell’interesse dell’impresa.
Sull’iniziativa nella guerra e nel conflitto giudiziario
Il progetto dell’attività d’impresa è composito, può non consistere, e, di solito, non consiste, in un unico documento. Quali che siano la forma e l’ampiezza, il progetto è, in ogni caso, necessario, costituendo la premessa della gestione e anche dell’attività contenziosa.
Il documento preparatorio del conflitto giudiziario, sia in attacco, che in difesa, è il presupposto, parimenti necessario, del confronto litigioso, e deve comprendere – come si è detto – obiettivi, risorse dedicate e parere legale.
Fermo restando che l’obiettivo principe, dichiarato negli atti dell’iniziativa, è la prevalenza sull’avversario mediante la “sua riduzione all’impotenza” (dal Clausewitz), sostanzialmente debellandolo, in conformità al principio primo della guerra, lo scopo concreto dell’attività giudiziaria può essere dissimulato e graduato, così come, in realtà, avviene per lo stesso intervento bellico.
L’annientamento dell’avversario, a seguito di distruzione dell’esercito e di occupazione armata del territorio conquistato, può esuberare l’interesse concreto dell’iniziativa bellica, suscettibile di essere acquisito, mantenuto e consolidato, nel breve/medio termine, con dispendio di risorse proporzionale agli obiettivi.
La relazione tra impegno profuso e risultato progettato è necessaria, meritevole di monitoraggio continuo e di aggiustamento. Le risorse impegnate devono essere congrue con la previsione del risultato, quanto meno sul piano della progettazione, e comunque non devono eccedere il risultato dell’avversario, per non scadere nell’annientamento reciproco.
L’inizio del conflitto è particolarmente delicato, e comporta anche questioni di credibilità reciproca delle parti contendenti. Esaurita la negoziazione, in altri termini, la mancata instaurazione del conflitto denuncia il bluff della pretesa svolta nel corso dell’attività negoziale e compromette la riproposizione di ogni successiva istanza/richiesta negoziale.
L’attacco deve essere preceduto dall’attività di intelligence, nella visione di Sun Tzu, e deve rispondere ai criteri della rapidità, della potenza e della concentrazione, nella visione di Clausewitz, senza disvelare, per quanto consentito dagli obiettivi perseguiti e dalle risorse impegnate, il piano strategico e, comunque, senza esaurire le risorse disponibili.
Non diversamente, l’atto introduttivo della lite deve attaccare a fondo la controparte, se le ragioni e le risorse della parte attrice sono soverchianti, senza, tuttavia, spendere tutti gli argomenti e tutti i mezzi di prova.
Le ragioni della domanda valgono in funzione delle prove dedotte e deducibili, a sostegno di quanto viene affermato nell’atto introduttivo. In sostanza, il thema probandum è strettamente connesso con il thema decidendum.
Il piano strategico deve, pertanto, conformarsi ai requisiti di legge, che impongono la prospettazione delle ragioni di fatto e di diritto, unitamente all’esplicitazione dei mezzi di prova, offrendo al contraddittorio l’orto concluso della situazione legittimante e legittimata, cara a Elio Fazzalari e da lui trattata sapientemente nelle Istituzioni di Diritto Processuale e in altri scritti, che diviene, a tutti gli effetti, il teatro dello scontro.
La prospettazione esposta nell’atto introduttivo è soggetta al vaglio dei fatti e degli argomenti: può essere accettata dalla controparte, che si limiti a dedurre e controdedurre nell’ambito della ricostruzione degli eventi offerta al contraddittorio, ovvero può essere ampliata, in sede di risposta, con nuovi argomenti e mezzi di prova, ovvero, ancora, può essere integrata o ribaltata da una domanda riconvenzionale, introduttiva di ragioni del tutto contrarie.
E’, pertanto, opportuno prevedere, già nel documento preparatorio dell’iniziativa, la riserva degli argomenti e delle prove, da spendere all’esito della risposta della parte convenuta in giudizio.
Non entriamo, in questa riflessione introduttiva, limitata alla strategia processuale, nell’ampia regione degli argomenti, preferendo rinviare, per questo, al Trattato dell’Argomentazione di Perelman e Olbrechts-Tyteca, un’opera di riferimento ineludibile per chiunque si serva della logica argomentativa, che si richiama ai classici, così come ai tanti autori più recenti che si sono occupati del tema.
Quanto alla prova, ricordiamo che all’attore compete la prova dei fatti costitutivi della domanda e al convenuto la prova dei fatti estintivi, modificativi e impeditivi opposti alla domanda.
Il giudice, scevro da pregiudizi, forma il proprio convincimento sulle prove acquisite al giudizio, all’esito della fase istruttoria, valutandone la conferenza e la rilevanza e, all’occorrenza, la prevalenza.
Sulle prove costituende in giudizio, a seguito di ammissione del mezzo richiesto (ad esempio, consistente in esibizione di documenti o ispezione di luoghi), il giudice è chiamato a prevederne l’utilità, al fine di stabilire, tramite la ricostruzione degli eventi, la verità processuale, ben altra – come è noto – dalla verità storica.
Concludiamo il paragrafo ricordando: che l’atto introduttivo del giudizio può essere preceduto da iniziative processuali preparatorie, di cautela o di accertamento tecnico, utili a fini sia valutativi, sia compositivi; che la resistenza ha l’obiettivo non dichiarato di logorare l’avversario; che il ripiegamento dell’avversario può essere uno stratagemma; che la vittoria non deve essere necessariamente un trionfo; che all’avversario è sempre bene lasciare una via di fuga, secondo il motto “ponti d’oro al nemico che fugge”.
Sugli attriti in guerra e nel conflitto giudiziario
Tutti gli eventi umani sono caratterizzati dagli imprevisti, più o meno impeditivi rispetto agli obiettivi prefigurati nella pianificazione delle attività e perseguiti concretamente, in conformità. La guerra e il conflitto giudiziario non fanno eccezione.
Clausewitz, reduce da tante battaglie, ne era perfettamente consapevole e ha dedicato molte pagine del suo trattato alla friktion, letteralmente attrito, consistente nell’elemento variabile che può sfuggire alla pianificazione, e, di fatto, spesso sfugge, con conseguenze rimediabili o irrimediabili.
Nelle avvertenze di Clausewitz, che visse e combatté tra la fine del 700 e i primi 30 anni dell’800, fino alla morte, gli imprevisti riguardavano la situazione meteorologica, i tempi di marcia e di spostamento sul campo di battaglia, la tempestività delle comunicazioni, il vettovagliamento, il funzionamento tecnico degli armamenti più sofisticati, il morale della truppa e l’audacia dei comandanti di vario rango.
Le condizioni meteo, in realtà, hanno influenzato le sorti della battaglia anche in tempi molto più recenti. Lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944), che inflisse una svolta decisiva al secondo conflitto mondiale, fu ritardato di un giorno nell’attesa che le condizioni migliorassero, e si dice che ebbe successo perché i meteorologi degli eserciti contendenti stimarono diversamente la praticabilità della Manica.
Gli attriti, quindi, non sono prevedibili per definizione, avvengono e basta. Non c’è previsione, né prevenzione, dei fattori imponderabili. C’è soltanto la consapevolezza, prudente, che possano presentarsi e che, in tal caso, sia necessaria una riserva di risorse e di energia, oltre alla buona sorte.
Bisogna agire sul campo, nel momento in cui gli imprevisti si presentano, riconoscendoli in tempo, e quindi con tempestività e impegno personale. Non ci sono prescrizioni. Si affrontano con l’esperienza e la volontà delle persone che si trovano lì, in quel momento.
Questo è ugualmente vero per il conflitto giudiziario. L’attrito può riguardare i disservizi di qualsiasi natura, l’orientamento personale del giudice, le capacità e le risorse dell’avversario, l’impegno e la perseveranza del legale dell’avversario, oltre agli eventi esterni, perfino naturali, che, nel corso del tempo richiesto dal processo, possono influenzare, in un senso o nell’altro, contro ogni previsione, gli avvenimenti processuali.
Soltanto l’esperienza dell’avvocato, preparato, prudente e perseverante, che abbia partecipato alla negoziazione (fallita) e alla preparazione del conflitto giudiziario e abbia dimestichezza professionale sia con la materia giudiziaria, sia con il settore economico, può ristabilire l’ordine dei fattori. Le capacità e l’esperienza dell’avvocato, in sostanza, fanno la differenza.
Notiamo, anche a futura memoria dell’Ordine Giudiziario, che l’avvocato è impegnato dal Codice Deontologico Forense a informare e consigliare il cliente sulla questione controversa, mediante un parere scritto, in cui è formulata, sulla base dei fatti noti, anche la previsione dell’esito della lite.
La Corte di Cassazione ha più volte avvertito che, ai fini della responsabilità professionale dell’avvocato, per definizione controversa ex post, il giudice deve fare una valutazione dei fatti ex ante, sulla scorta degli elementi sussistenti nel momento del parere.
In sostanza, la redazione di un parere accurato anche sotto il profilo fattuale, formalizzato nel rapporto tra avvocato e cliente, può esimere da responsabilità professionale, ed è quindi opportuno nell’ambito della preparazione dell’attività contenziosa, oltre che eticamente dovuto, sia agli effetti dell’efficacia della prestazione d’opera, che delle eventuali conseguenze di tale attività nel rapporto di mandato.
Tanto più – segnaliamo – che l’Ordinamento si orienta sempre più nella direzione della prevedibilità dell’esito del giudizio, con tutte le implicazioni del caso, al punto che si prefigura un diritto soggettivo alla corretta informazione e alla previsione dell’esito della lite, sulla base delle condizioni date.
La complessità delle relazioni umane e il concorso degli attriti, di cui abbiamo dato solo qualche esempio, non consentono, in realtà, la certezza dell’esito, né l’hanno mai consentita, come sanno gli storici del diritto.
Piero Calamandrei, che insegnava e parimenti frequentava i tribunali, nel suo Elogio dei Giudici ha rimarcato l’attualità del brocardo latino habent sua sidera lites, nel racconto del giudice che affidava l’esito della lite alla traiettoria del tocco lanciato contro la parete.
La prevedibilità assoluta non potrà essere mai del tutto conquistata, perché il conflitto giudiziario risente, al pari di ogni attività umana, della qualità delle persone che concorrono al contraddittorio e del capriccio degli eventi; potrà essere gradualmente acquisita al patrimonio dell’Ordinamento, mediante l’adeguamento del giudice di merito all’orientamento consolidato della Corte di Cassazione (come avviene nel diritto anglosassone, dominato dal principio dello stare decisis) e la pubblicazione (di pronta accessibilità) delle sentenze di merito, parcellizzata per tribunale e perfino per sezione e giudice di ciascun tribunale, in una allo scrupolo preparatorio e difensivo dell’avvocato, correttamente informato dal cliente, applicato allo svolgimento del giudizio in tutte le sue fasi.
Il fenomeno del provvedimento abnorme, severamente sanzionato dalla Corte di Cassazione in numerose sentenze, potrà così essere ridotto, seppure – a nostro avviso – mai debellato.
Ricordiamo che Clausewitz ha teorizzato, nel trattato, il carattere probabilistico della guerra (“ogni guerra deve essere valutata nel suo carattere probabile”), suscettibile di riduzione, mediante l’analisi e la pianificazione, di certo non di annullamento.
Sugli stratagemmi in guerra e nel conflitto giudiziario
Lo stratagemma, consistente nell’adozione di iniziative idonee a confondere e a distrarre l’avversario, è largamente applicato in guerra, così come nelle relazioni umane e nel conflitto giudiziario.
Lo stratagemma bellico più noto è forse la diversione, ampiamente trattata da Clausewitz, consistente nell’iniziativa intrapresa per distogliere le forze dell’avversario dal centro di gravitazione, che, nell’ambito del piano di guerra, costituisce l’effettivo obiettivo del combattimento.
La diversione è analoga alla “finta” nelle arti marziali, per dire delle affinità tra tutte le forme di confronto.
In logica, lo stratagemma è stato studiato da filosofi e retori come tecnica argomentativa ed è largamente applicato dagli avvocati nel conflitto giudiziario, mediante adozione di forme retoriche semplici o complesse, concernenti, ad esempio: la convergenza o la divergenza sulle premesse dell’argomento offerto al contraddittorio, ovvero il ricorso alla generalizzazione o alla parcellizzazione dell’elemento fattuale, magari forzando la “regola” dell’id quod plerumque accidit e l’aureo, fondamentale principio di non contraddizione, su cui si è sviluppata la logica aristotelica.
Napoleone sosteneva, inoltre, che forma retorica potentissima è la ripetizione, sia pure apodittica, assurta a teoria della pratica politica (l’ossimoro è solo apparente) e, quindi, in proiezione, del conflitto, nella Psicologia delle Folle, scritto da Gustave Le Bon a fine 800 e apprezzato, come libro di culto, dai dittatori del 900.
Frase celebre di Le Bon è “scusare il male significa moltiplicarlo”, che echeggia il brocardo latino “excusatio non petita accusatio manifesta”.
Le arti della persuasione e della politica sono fitte di stratagemmi e financo di illusioni, posto che, nella visione di Le Bon, le masse non chiedono altro che di essere ingannate, in conformità all’altra sua frase celebre che “I popoli vivono soprattutto di speranza. Le loro rivoluzioni hanno lo scopo di sostituire con una speranza nuova le speranze antiche che hanno perso la loro forza.”
Il manuale del Sun Tzu è denso di aforismi apparentemente privi di senso, corrispondenti, in realtà, a stratagemmi e tecniche argomentative di larga applicazione in ogni conflitto, materiale e immateriale.
Ad esempio: “attraversare il mare senza che il cielo lo sappia” significa distrarre, abbagliare; “uccidere con una spada presa a prestito” significa utilizzare le risorse altrui per i propri scopi; “intorbidire l’acqua per fare salire i pesci” significa fare confusione per stanare l’avversario. E sono solo esempi.
Ingredienti ineliminabili dello stratagemma sono l’astuzia, raffinata dalla conoscenza profonda della materia in cui viene applicata, e, quindi, anch’essa esperta, e l’intelligenza, nel suo significato etimologico di connettere, a scopo pratico, gli elementi esperienziali e intellettuali.
Considerazioni conclusive
La conservazione e la conquista attingono a due diversi, ma compresenti, istinti dell’uomo, che si propongono in ogni conflitto e non si escludono, l’un l’altro.
L’assunzione dell’iniziativa, sia nel conflitto bellico, che giudiziario, tende, per sua natura, alla conquista di obiettivi predeterminati e, tuttavia, contiene, nel piano e nello scopo, anche un necessario, dichiarato impegno difensivo, connaturato alla logica stessa del confronto.
La difesa è – teoricamente – più semplice dell’offesa, a condizione che sia attiva, che comporti quindi attività diversive e offensive e sia incessante: non si possono lasciare spazi all’avversario.
Clausewitz ricorre al brocardo latino beati sunt possidentes per spiegare la necessità e il vantaggio relativo della difesa, che – avverte – si manifesta in tutte le relazioni ordinarie della vita e, soprattutto, nelle contese giudiziarie.
La difesa non deve essere scevra da tensione morale (a cui, ad esempio, molto deve la vittoria conseguita dall’esercito italiano nella battaglia del Piave, nella prima guerra mondiale), dal riconoscimento del centro di gravitazione e del punto culminante del confronto, oltre il quale le risorse impiegate possono non essere più commisurate agli obiettivi.
Il comandante in campo, così come l’avvocato in giudizio, deve saper distinguere tra guerra assoluta e guerra reale, per scongiurare l’esasperazione reciproca e l’esaurimento delle risorse, ed esercitare il comando, sempre unitamente all’esercizio del confronto interno, perché “nulla ci inganna più del nostro giudizio” avverte Leonardo Da Vinci.
Concludiamo la riflessione con un richiamo alla teoria dei giochi (dal titolo di una pubblicazione scientifica degli anni 40), celebrata dal film A beautiful mind nel 2001, protagonista il matematico John Nash.
In breve, la teoria concerne la valutazione delle strategie di gioco da adottare in situazioni caratterizzate dall’interazione di più soggetti – non collaborativi tra loro – ciascuno dei quali, tendendo a ottenere il massimo vantaggio, senza tuttavia rischiare di favorire gli avversari, gioca in modo tale da non provocare variazioni nelle scelte degli altri, fino a raggiungere il punto di equilibrio, che prende nome da Nash.
La prevalenza nel gioco si ottiene rompendo il punto di equilibrio nel momento (ritenuto) più opportuno. Se il momento non si presenta nelle condizioni date (o non si riconosce in tempo), e quindi si rischia la perdita (o la soccombenza), si deve valutare l’opportunità di “buttare all’aria il tavolo”, per rimanere nel gergo delle carte.
La logica argomentativa non costituisce patrimonio esclusivo di studiosi e di professionisti versati nelle scienze umane.
Gianrico Carofiglio, nel pregevole libro L’Arte del Dubbio, ha dimostrato che le persone più semplici, o apparentemente tali, adottano intuitivamente stratagemmi argomentativi anche sotto lo stress del processo, ed ha affermato, in sintonia con Clausewitz, il carattere probabilistico del conflitto giudiziario, che si riflette inevitabilmente nel concetto della verità ricostruita in giudizio, perfetta sintesi, in sentenza, di certezza del diritto e di fallibilità dell’operato umano.
Emblematica della precarietà implicita nel giudizio probabilistico, riducibile con l’analisi e la preparazione, ma effettivamente ineludibile, è la descrizione della verità giudiziaria adottata da Carofiglio nella sua opera, con cui concludiamo la nostra riflessione: “di nessuna verità storica, come peraltro di nessuna verità scientifica nella prospettiva del falsificazionismo popperiano, è formalmente impossibile predicare il contrario, dovendosi da ciò desumere che il concetto di verità processuale sia ricostruibile, indirettamente, con una sorta di determinazione quantitativa delle probabilità contrarie”.